Lo spunto viene guardando una serie di scansioni di vecchie fotografie in bianco e nero che riportano a tempi “antichi”. Una in particolare, mostra quattro persone in fila, sci ai piedi, che si muovono sul ghiacciaio del Miage, ambiente tipico dell’alta montagna. L’abbigliamento non è quello che siamo abituati a vedere oggi. Il primo della fila ha in testa una coppola, e l’ultimo, oltre a quella, indossa una camicia. Ciò che a un certo punto attira l’attenzione è il terzo della fila, con un berrettino bianco in testa, tiene nelle mani due strani bastoncini da sci e scatena subito una curiosità pungente. Riconoscendo il protagonista, Alessandro Gorini, siamo stati in grado di farci raccontare quella stranezza e anche la storia di quelle giornate.
Cosa stavate facendo, Sandro?
Era il 1956 e stavamo iniziando la traversata scialpinistica del massiccio del Monte Bianco guidati da Toni Gobbi. Walter Bonatti aveva appena effettuato la traversata in sci delle Alpi, guida con cliente, e Gobbi voleva compiere un’impresa similare. Ero assieme a Renato Fabbri, che è stato presidente della nostra sezione prima di me.
Puoi raccontare di quegli strani bastoncini che avevi nelle mani?
Partimmo da Courmayeur con il taxi per raggiungere la Val Veny e iniziare il giro. Quando scaricarono i bagagli, ci si accorse che mancavano i miei bastoncini da sci. Allora Renato Petigàx, l’altra guida che ci accompagnava, trovò un tronco infisso nel lago di Combal e con martello e chiodi da roccia lo divise in quattro parti e ricavò due bastoni rudimentali, con i quali ho potuto effettuare la traversata.
Non era un’impresa di poco conto dal punto di vista dell’impegno fisico e tecnico. Vero?
Va detto che ci eravamo preparati con una settimana scialpinistica di allenamento, percorrendo la Houte Route da Courmayeur fino a Zermatt e poi a Cervinia. Si tratta di 120 chilometri con gli sci ai piedi. Poi ci trovammo per la partenza. Allora avevo 28 anni ed è stato 61 anni fa.
Che itinerario seguiste nella traversata?
Partimmo dal lago di Combal, passammo per la cima del monte Bianco e arrivammo al Plan della Aiguille du Midì. Conservo ancora il biglietto della funivia con la quale scendemmo a fine traversata. Dormimmo alla Capanna Vallot in salita anche se dire dormire naturalmente è un eufemismo. Basti pensare che materassi dei letti erano in fibre d’amianto.
Quali furono i tratti di maggiore difficoltà che affrontaste?
La parte più impegnativa fu la risalita della cresta di Bionessay che percorremmo in cordata con ramponi e piccozza. In discesa il tratto più impegnativo fu quello tra il Gran Plateau e il rifugio Gran Mulet.
Per quanti giorni vi impegnò questa traversata del Monte Bianco?
Impiegammo in tutto quattro giorni, di cui uno perduto a causa del maltempo che ci tenne bloccati alla Capanna Gonella. Quando vi giungemmo, aprendo la porta, ci trovammo davanti un muro di neve pressata dal vento che dovemmo spalare per poter entrare e trovare riparo.
Approfittiamo della memoria storica di Sandro Gorini (socio del CAI Ferrara dal 1947) per cercare di capire meglio le dinamiche sociali di quel periodo di vent’anni del dopoguerra e sulle varie attività che si praticavano in sezione. Fermo restando l’intensa attività sciistica.
E’ corretto ipotizzare che l’impresa della spedizione italiana al K2 del 1954 possa avere creato nei soci un maggiore interesse (magari emulativo) verso le attività alpinistiche?
Direi di no. L’attività alpinistica c’è sempre stata, spesso a livello individuale o di piccoli gruppi di amici che praticavano alpinismo anche con le guide alpine. Credo che le attività di scialpinismo che facevamo assieme a Renato Fabbri negli anni ’50 abbiano contribuito anno dopo anno a dare spinta a questo tipo di attività, fino a creare le condizioni per la formazione di un gruppo di appassionati, tra cui ricordo Rodolfo Bergami, Rino Gardenghi, Eugenio Morsiani, Achille Carani, Anna Borgatti, Giorgio Sitta e altri che certo ora sto dimenticando.
Quindi la spinta verso l’alpinismo venne successivamente?
Venne dal formarsi di questo gruppo di appassionati che portò negli anni ’60 e ’70 a rivolgersi alle Scuole di alpinismo di altre sezioni per partecipare a corsi organizzati. Parliamo di Gino Soldà e i suoi collaboratori per organizzare corsi a Campogrosso, nelle Piccole Dolomiti vicentine e nelle Dolomiti (possiamo ricordare la salita al Campanile di Val Montanaia effettuata nel 1963). Ma non dimentichiamo i corsi con la Scuola Bombardieri e con la Scuola Graffer di Trento (per due anni al Catinaccio e un anno in Brenta) e con questi arriviamo agli inizi degli anni ’70.
Anni su cui ci sarebbe ancora da “indagare”, ma sui quali un po’ di chiarezza, forse, siamo riusciti a farla.
Gabriele Villa